
Guillou era un personaggio carismatico, quasi istrionico (sulle prime metteva soggezione, se non addirittura un po’ di timore): d’aspetto austero e ieratico sembrava, a tratti sia un aristocratico d’altri tempi sia una sorta di Cavaliere Jedi tratto direttamente dalla Saga di Star Wars.
Sorretto da un bagaglio culturale impressionante (musicale ma anche umanistico, filosofico e scientifico), sempre cortese, affabile (anche nel dirti cose “scomode”), il Maestro era pure uomo di grande fascino (citando Marie-Claire Alain: “Il est beau et il le sait…»): mentre conversavi con lui avevi l’impressione che i suoi occhi ti leggessero dentro come se fossi un libro aperto.
Virtuoso come pochi (la sua tecnica del pedale era fantascientifica), improvvisatore e compositore geniale, Guillou metteva gli strumenti che suonava a ferro e fuoco (l’organo della Collegiata uscì dal recital con le ossa rotte).
Uomo costantemente proteso verso il futuro e l’innovazione: sia nell’arte organaria (molti strumenti nuovi progettati da lui sono stati oggetto di grosse contestazioni) sia nella prassi esecutiva.
Il suo nome è indissolubilmente legato a momenti di portata storica, come quando, nella notte di Natale del 1968, commentò, improvvisando, la storica circumnavigazione dell’orbita lunare svolta dall’Apollo 8 (alcune di queste improvvisazioni confluirono, dopo essere state trascritte nelle sue “Visions cosmiques”).
Qualche mese dopo il suo concerto locarnese mi trovavo a Parigi per lo stage linguistico dei nostri studenti di prima Magistrale. Fu l’occasione per rendergli visita a Saint Eustache, insieme alla collega Clelia Paccagnino. Fu così che in men che non si dica mi ritrovai al cospetto di quello che, ancora oggi, viene designato come il più grande strumento di Francia.
Ma questa è un’altra storia.
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